Alcune domande sul ruolo della cultura in Sicilia

di Francesco Mannino

La cultura in Sicilia è una questione di disuguaglianze: solo il 24,7% partecipa ad attività culturali, le biblioteche sono carenti, e il 27,9% dei giovani è NEET. Mentre il dibattito pubblico si concentra su scandali temporanei e simboli discutibili, restano inevase domande cruciali: chi beneficia davvero della cultura? Quanto contribuisce a ridurre le disuguaglianze sociali? È tempo di affrontare le profonde carenze strutturali del settore, trasformando un vibrante dibattito in politiche coerenti e pratiche consequenziali.

Cosa agita il sonnecchiante dibattito sul settore culturale siciliano? Agrigento, capitale italiana della cultura 2025, ha recentemente attirato l’attenzione per un cartello stradale contenente alcuni errori o refusi. Le migliori penne culturali dell’isola (e, direi, del Paese intero) si sono erette in un coro (quasi) univoco di denuncia, scandalizzate da un così inaccettabile contrasto tra l’orrore segnaletico e la millenaria cultura isolana. E già le acque culturali siciliane erano agitate dalle notizie giornalistiche di presunti abusi nella distribuzione di fondi pubblici destinati alla cultura da parte di noti parlamentari siciliani. Anche qui, erano stati alzati gli scudi e ruggite le domande sui criteri di spartizione e affidamento di quei (miseri) denari. Ebbene, qualcosa si muove? Sì, forse, boh.

Il dibattito pubblico sulla cultura in Sicilia viene periodicamente scosso da notizie che la pongono (finalmente) al centro delle cronache, generando brividi febbrili, eccitazioni che parevano sopite, verità assolute, processi digitali e condanne in real time. Sono però spesso fuochi di paglia che si incendiano sul pelo dell’acqua della sostanza, per poi auto-estinguersi in pochi giorni lasciando la sensazione che, malgrado la ghiotta occasione, molte domande sistemiche non siano state sollevate, rimanendo invece abbandonate – e plumbee – sui fondali. Uso queste righe per chiedermi se non ci sia invece bisogno di mettere in discussione un’intera struttura: non solo se chi decide sia più o meno legittimato; non solo se chi opera sia più o meno titolato; non solo se i soldi siano distribuiti bene o male o a chi vadano e a chi no; proverei a chiedermi anche – e soprattutto – a quali scopi quei soldi siano destinati, con quali effetti attesi e infine con quali impatti generati sulle vite delle persone che abitano la Sicilia, il vero grande tabù di tutte le politiche culturali siciliane. Una regione che rimane, dati alla mano, tra le più escludenti in Italia quando si parla di accesso alla cultura.

Le diseguaglianze che definiscono la cultura in Sicilia

Secondo il rapporto BES dell’ISTAT infatti, la partecipazione culturale in Sicilia resta un privilegio per pochi. Solo il 24,7% della popolazione ha svolto attività culturali come cinema, teatro, musei o concerti almeno una volta l’anno, contro il 35,2% della media nazionale. Un divario importante che non suggerisca facili scorciatoie su cultura e incultura, ma che spinga a farci altre domande, anche scomode.

Anche le biblioteche, una risorsa essenziale per l’accesso alla cultura, sono gravemente carenti: appena 0,9 ogni 10.000 abitanti, con una media di 1,8 posti per la consultazione ogni 1.000 residenti, valori ben inferiori alle medie del Mezzogiorno (2,8) e nazionali (3,7).

Ma il perimetro culturale non si limita a musei, biblioteche e teatri; anzi, la sua debolezza parte da lontano, da un’istruzione che in Sicilia è luogo di disparità. Solo il 6,6% di bambini e bambine tra 0 e 2 anni usufruisce di servizi comunali per l’infanzia, contro il 16,8% a livello nazionale. Tra le persone giovani, il 27,9% è NEET, ossia non studia né lavora, 11 punti percentuali sopra la media italiana. Inoltre, il 61,4% delle persone in terza media non raggiunge competenze adeguate in matematica, e il 50,2% in italiano. Questi dati non sono solo numeri: raccontano una realtà in cui le basi stesse della partecipazione culturale – la capacità di leggere, capire, analizzare – sono compromesse, negando di fatto l’accesso consapevole e attivo alle relazioni sociali e un significativo sviluppo dell’autonomia individuale.

 

Le altre domande che dovremmo farci

Un enorme problema quindi non è solo capire quali e quante disuguaglianze affliggono in Sicilia l’accesso alla cultura, ma riflettere su quanto essa, ad oggi, sia in grado di rispondere alle disuguaglianze sociali che impregnano la regione. E qui le domande si moltiplicano. Proviamo a dare loro una forma.

  • Il settore culturale in Sicilia riesce ad essere welfare? Quanto coinvolge i margini e le fragilità? Come si comporta con le persone con redditi medio-bassi o davvero povere, con le persone neuro divergenti, disabili o affette da patologie? Quanto sa comunicare e coesistere con le persone che sono da poco nei nostri territori provenendo da luoghi e culture lontane e diverse? Quanto sa farlo con le persone anziane, e quanto con quelle giovani o giovanissime, magari alla ricerca tormentata di un proprio posto nelle relazioni sociali? Quanto è capace di rispondere a tutte le forme di discriminazione e violenza, una tra tutte quella maschile contro le donne e altre soggettività?
  • Il settore culturale in Sicilia riesce a generare coesione sociale vera? Stimola e consente la partecipazione della popolazione, e non solo passivamente? Sa produrre relazioni, domande, collaborazione, attivismo civico, finanche conflitto? Quanto è pubblica, libera, accessibile questa partecipazione? 
  • Il settore culturale in Sicilia riesce a generare lavoro culturale con rapporti chiari e salari dignitosi, regolato da contratti nazionali e individuali adeguati, controllabile e non sommerso, soddisfacente per chi lo presta? E quanto diffusamente avviene tutto ciò, quando avviene?
  • Il settore culturale in Sicilia riesce a rispondere a bisogni espressi o inespressi? Permette davvero alla signora Rita di andare alla lirica ad ascoltare quell’aria che ha sempre amato, o al signor Carlo di andare al museo per vedere quel quadro che lo incuriosisce? Al piccolo Rosario di andare ad una biblioteca di quartiere per prendere quel libro o per leggere quel vecchio giornale per la ricerca scolastica, oppure a partecipare ad un laboratorio di teatro per sconfiggere la timidezza e allenare l’immaginario?
  • Il settore culturale in Sicilia riesce ad allacciare agilmente un’alleanza stabile con le scuole per arricchire l’offerta formativa curriculare, integrandola con contenuti, luoghi e professionalità che nelle scuole non possono esserci?
  • E a proposito di turismo culturale, il settore culturale in Sicilia sa fare del fenomeno davvero un’esperienza culturale, o si limita a indurre ingenti flussi di persone nei grandi attrattori culturali per gonfiare i muscoli a fine anno? E questi grandi introiti prodotti per proliferazione dal consumo intensivo dei grandi attrattori, questo “petrolio culturale” estratto, secondo quali proporzioni e meccanismi viene davvero distribuito? Mohammed che lavora nel retrobottega della cucina della trattoria vicino al porto, o Lucy che apre il chiosco ogni mattina alle 6, o Alfio che fa le pulizie nel B&B, o Francesco che cambia le batterie ai monopattini, o Tina, che vive nella media o lontana periferia, che parte del tutto possono godersi di questo giacimento culturale così arricchente, loro che lo finanziano con le loro imposte dirette o indirette?

Queste, e altre domande, saranno oggetto di approfondimenti in questo blog di Officine Culturali, oltre che delle sue pratiche. Anticipiamo qui che Officine Culturali riconosce nel terzo settore culturale, facendone parte ormai attivamente da quindici anni, un agente preparato e capace per collaborare alla costruzione delle risposte a molte di quelle domande; ritenendo la via del perseguimento dell’interesse generale una chiave essenziale per affrontare i bisogni collettivi e il senso dei beni comuni. Ma il terzo settore è “terzo” di uno Stato che deve sapere fare la sua parte, sennò questa partita è truccata dall’inizio: ci deve mettere competenze, coraggio, decisioni coerenti e risorse.

La cultura in Sicilia, qualunque cosa voglia dire davvero quella parola (ma questo è un altro discorso) non può essere solo un vessillo da sbandierare in occasione di eventi straordinari come la nomina di una capitale culturale. Deve imparare a essere un sistema che risponda ai bisogni della comunità, che costruisca possibilità di emancipazione, che ridistribuisca risorse e opportunità. Forse, per la Sicilia, è tempo di smettere di sbirciare il “dito” – che sia un cartello sgrammaticato o un presunto scandalo politico – e cominciare finalmente a guardare alla “luna” della grande battaglia all’esclusione sociale, alla marginalizzazione, alla povertà educativa che questa regione deve sapere ingaggiare, una volta per tutte.

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